mercoledì 4 agosto 2010

Il Caligola "assurdo" di Albert Camus


Potere assoluto è chiedere a un popolo di credere, per il solo comando del proprio imperatore, che l’impossibile non sia tale. Che la luna possa stare nel cielo o nella sua mano, indifferentemente. Ma il potere non è mai abbastanza assoluto, la luna resta appesa nel firmamento. E chi muore rimane morto: il segreto non si svela, l’assurdo resta assurdo. Spingerlo “alle estreme conseguenze” non serve ad altro che condannarsi a finire, diventare radicalmente incapaci di vivere.

Sono forse questi i messaggi principali del Caligola riscritto in forma teatrale da Albert Camus nel 1941, in un mondo che sta per spingere davvero l’insensatezza al cuore della realtà. La vicenda, è noto, racconta gli ultimi giorni dell’imperatore, che in lutto per la perdita dell’amata smarrisce il senno e inizia a disporre delle vite umane e del mondo che lo circonda a suo completo piacimento, fino a causare una congiura che lo ucciderà. Ma è solo un pretesto: in poco più di sessanta pagine, infatti, le epoche svaniscono e si fondono, e una trama scarna, essenziale perde ogni ambizione narrativa per diventare puro distillato di pensiero.

Anche se la tentazione di una lettura storica, in particolare in riferimento all’epoca dei totalitarismi, è forte: ci sono il terrore dei figli e dei padri mandati a morte senza motivo, la cultura del sospetto, l’utilizzo della violenza sessuale come passatempo e il disprezzo delle masse elevato a unica fonte di serenità. C’è l’idea orwelliana che la schiavitù sia libertà riletta attraverso il mito dell’esecuzione liberatrice. C’è la colpevolezza oggettiva, che in Hitler era dell’ebreo e in Caligola dei sudditi in quanto sudditi. Una mistica della morte arbitraria, dunque, della libertà come accettazione di un dominio irrefrenabile, che si spinge fino all’obbedienza anche nel momento in cui venga oltraggiata la moglie davanti agli occhi, o sterminata la propria famiglia. Anche in questi casi, la libertà del suddito è di sorridere o morire.

Eppure la vera vicenda resta tutta interna alla mente di Caligola, il vero cardine non è politico ma esistenziale. Così che il mondo dell’imperatore diviene insensato quando è la sua esistenza, senza Drusilla, a divenire insensata. E il “mostro” attraverso l’esercizio di un potere sanguinario, in cui “la poesia provoca l’azione e il sogno la realizza”, scopre solamente se stesso, non il dolore altrui. Ciò che gli rimarrà sempre precluso, infatti, è proprio quella capacità di amare per cui inizialmente si condannava.

Ecco, la pratica del male lascia Caligola con una terribile certezza, che gli impedisce di continuare a esistere: anche il dolore per la morte di Drusilla era soltanto un “alibi”. Un modo per celare che Caligola è solo un uomo incapace di empatia e, dunque, di eternità. Perché ciò che realmente ossessiona l’imperatore è la fugacità del tutto, che associa immediatamente – e senza scampo – a una indefinibile mancanza di senso. Non sono né l’amore né l’odio, ma l’insicurezza a ucciderlo. La stessa che armerà la mano dei suoi carnefici. Per questo “Drusilla vecchia sarebbe peggio di Drusilla morta”: perché quella vecchiaia avrebbe rivelato che perfino quello che credeva “troppo amore” non era che menzogna, desiderio di piacere carnale. O meglio, una conferma che l’impossibile è davvero impossibile. Chi non è in grado di accettare questa semplice identità – ammonisce Camus per questa ed ogni epoca – è destinato a ricoprire di sangue il suo cammino e, se gliene viene data l’opportunità, quello del mondo intero.

Nessun commento:

Posta un commento