domenica 30 maggio 2010

LA GRANDE DISILLUSIONE (di Barbara Spinelli, da la Stampa)

A prima vista, si direbbe che due siano ormai le visioni della crisi divampata nel 2007, e dei modi di sormontarla in Italia. Da una parte c’è il film proiettato dal presidente del Consiglio per anni: la crisi è un fulmine, che non turba il cielo sereno sopra le nostre teste. La chiamano crisi, ma non è tale. Sono i giornali, le istituzioni internazionali, ad angosciarci con le loro aritmetiche cupe. Dovrebbero tacere, lasciar fare i governi. Ben diversa la visione di Tremonti, che usa metafore tutt’altro che confortanti: «La situazione non è bella. Siamo alpinisti aggrappati a una parete verticale, non possiamo traccheggiare». Tremonti vede il disastro ma anch’egli proietta un suo film, quando paragona il marasma a un videogioco. Sullo schermo irrompe un mostro, dal nulla: o lo uccidi o perisci. Non c’è sguardo lungo. Abbatti l’orco, e passi al successivo. Non c’è tempo per traccheggiare ma neppure, molto, per pensare. Inoltre il videogame puoi spegnerlo.
Così muore il reality show che Berlusconi manda in onda sin da principio: un mondo finto, chiuso. Una sorta di quartiere sigillato, inaccessibile alle ambasce delle metropoli, simile a Milano-2 costruita negli Anni 70.

In America i quartieri sono chiamati gated community, comunità corazzate da grossi cancelli, che proteggono da incursioni esterne e spesso sono dotate di circuiti televisivi stile Mediaset o Tg1, dispensatori di distrazioni. Il reality non dice il reale; lo fa. La negazione della crisi, fino all’allarme di Tremonti, è stata un ingrediente base del film berlusconiano. Anche la negazione dei mostri nascosti (mafia, suoi patti con l’anti-Stato) è ingrediente di rilievo.

Per questo non è appropriato parlare, a proposito della manovra, di sacrifici. Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica disintossicazione, unita a non meno urgenti operazioni verità sulla democrazia minacciata. Si tratta di uscire dallo show, di entrare nella realtà, di vederla. Si tratta di rompere con gli usi e costumi vigenti dietro le comunità transennate: il vivere alla giornata, il non guardare lontano, il non voler sapere la verità sullo Stato e su se stessi. Il compito affidatoci è una gigantesca disillusione, più che una rinuncia ai beni che avevamo. Il disilluso possedeva vizi, oltre che beni: volontariamente scelse d’illudersi. Anche Manovra è parola sciapa, che implica un guidatore e masse di guidati. Meglio parlare di un comune, benefico risvegliarsi.

In fondo l’esperienza è simile a quella traversata dal cattolicesimo, dopo lo scandalo della pedofilia. Il clero ha coperto reati atroci, e ora s’accinge a punirli. Ma il compito del risanamento spetta all’intera Chiesa, e la Chiesa non si riduce alla gerarchia: per definizione, è il popolo riunito dei fedeli. Lo spiega magistralmente, sul sito del Regno, il vicedirettore della rivista Gianfranco Brunelli. Perché l’istituzione riacquisti credibilità, deve pensarsi come parte del popolo di Dio, incorporare le vittime, parlare con loro più che a loro: non c’è esclusivamente il clero, da curare. Guarire significa concepire la Chiesa «non solo come istituzione ma come popolo di Dio»: giacché «Dio è delle vittime. Dio è nelle vittime. Là egli si è fatto sentire. Là la Chiesa lo può vedere in maniera privilegiata, poiché là sempre egli manifesta il suo Spirito (Matteo 25)».

Da secoli la Chiesa ispira regni e repubbliche, e oggi come ieri la teologia aiuta a capire, soprattutto in democrazia, il farsi della politica. Lo squasso economico mette quest’ultima a dura prova, e il rimedio anche qui non consiste nel salvare gerarchie e caste ma l’intero popolo della politica: composto di governati e governanti, fondato su sofisticati equilibri fra vari poteri che si bilanciano.

L’Italia economicamente sta meglio della Grecia (grazie al governo Prodi, essenzialmente), ma in molte cose i Paesi si somigliano. Atene è precipitata perché una classe di governanti, per anni, proiettò chimere: visse senza guardar lontano, fino a truccare - in casa, in Europa - le cifre del proprio bilancio. Lo fece per immunizzare caste, politici. Non pensò (qui è la somiglianza) che in custodia aveva tutto il popolo della politica, e in primis i poveri, le vittime, i contribuenti che pagano per gli evasori, i meno organizzati e garantiti. Epifani che annuncia scioperi anti-manovra ha comportamenti immodesti e suicidi: cos’ha dato il sindacato agli italiani, quando bocciò la vendita di Alitalia a Air France, se non più licenziati e fardelli più grevi sulle spalle dei contribuenti?

Degli aspetti tecnici della manovra si sa poco, ma ci sono elementi che fanno impressione: alcune misure sono spudoratamente copiate dal governo Prodi, abbattuto due anni fa. Restano memorabili gli insulti a Visco, stratega agguerrito dell’anti-evasione: fu dipinto come vampiro, nei videogame dell’attuale maggioranza. Ora le sue misure (tracciabilità dei redditi) sono riesumate, e Tremonti non può dar torto a quel che Visco scrive sul sito della Voce: «Se si ritiene che la riduzione dell’evasione sia utile, andrebbero reintrodotte integralmente le misure varate dal governo Prodi e subito abrogate dal governo Berlusconi».

Ma le similitudini tra Grecia e Italia sono innanzitutto politiche. In ambedue i casi, il rigore riesce a due condizioni: se la tecnica è buona, e se la democrazia ha le virtù raccomandate dall’Ocse alla finanza: correttezza, integrità, trasparenza. Per imporre rigore, infatti, i governi devono avere la legittimità etica di chi non tratta il «popolo della politica» come mezzo, ma come fine.

Sulla prima condizione si può sospendere il giudizio. Ma la seconda condizione di sicuro in Italia manca. Questo è un governo che ha passato più tempo a proteggere premier e politici dai processi, che a far politica per gli italiani. Questo è un governo cui l’ex presidente Ciampi chiede solennemente la verità sui pericoli corsi dalla democrazia nelle stragi inaugurate dall’eccidio di Falcone e Borsellino (Repubblica, 29 maggio). Questi sono giorni in cui il partito fondato da Berlusconi è sospettato di un patto con la mafia, che dopo Tangentopoli avrebbe convogliato su Forza Italia i voti di vaste aree del Sud in cambio di favori e promesse.

La crisi, come a Atene, disvela i trucchi ottimisti del film berlusconiano ma anche i suoi scantinati tenebrosi. L’evento fondamentale dei giorni scorsi è stato il discorso di Piero Grasso, mercoledì a Firenze nella commemorazione della strage dei Georgofili. Il procuratore nazionale antimafia non cita Berlusconi e Dell’Utri - non ha le prove - ma dice cose gravi: «Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», e le stragi del ’92-93 volevano causare disordine per dare «la possibilità a un’entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa Nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste». Grasso in genere è uomo prudente. Nel ’98, con altri magistrati, archiviò l’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri ritenuti mandanti occulti del terrore mafioso.

Il procuratore disse queste verità già allora. Per motivi non chiari, il verbale rimase però nascosto. Lo dissotterrano Lo Bianco e Sandra Rizza, in un libro che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere («L’agenda nera»). Se Grasso torna a parlarne oggi è perché ha deciso di abbandonare le autocensure. In parte perché nuovi pentiti testimoniano. In parte perché, grazie alla crisi, il Truman Show berlusconiano si sfalda. Può darsi che la bolla sopravviva un po’, come nel film di Peter Weir. Ma il «popolo della politica» difficilmente si farà persuadere ancora da miraggi e occultamenti dell’incantatore di Palazzo Grazioli. Questo non è tempo di mostri che irrompono nel videogame. Ci sono mostri da stanare, non visibili perché non programmati per esserlo. È vero: «La situazione non è bella». Che diventi, almeno, vera.

venerdì 28 maggio 2010

L'eredità di Tobagi: un valore da custordire (di Ferruccio De Bortoli)


Quel 28 maggio di trent’anni fa, era un mercoledì, pioveva e faceva ancora freddo. La primavera a Milano era stata inclemente e l’emergenza del terrorismo, che vivevamo con angoscia quotidiana, sembrava essersi trasformata persino in un cupo fenomeno atmosferico.

Il cielo color piombo, come i troppi anni di soffocante assedio della violenza e del terrore. La mattina, nello stanzone a pian terreno della cronaca di Milano, scorreva regolare nei suoi riti: il caffè, la riunione, le chiacchiere sciolte. Eravamo in due o tre, non di più. Allora i giornali si facevano soprattutto di sera e di notte, le redazioni si animavano verso le cinque del pomeriggio, il ticchettio assordante delle macchine per scrivere (oggi non lo sopporteremmo) si scatenava verso le sette, le otto. Non passava giorno, in quegli anni, che non venisse ucciso o gambizzato (brutto neologismo dell’epoca) qualcuno. E anche noi giornalisti avevamo la netta sensazione di poter essere, come lo eravamo già stati, nel mirino dei terroristi. C’era chi, esagerando come spesso ci accade, si era comprato un’arma, così per sentirsi più sicuro; chi uscendo di casa cambiava ogni giorno percorso; chi confessava di continuare a guardarsi le spalle.

Fabio Mantica, vice capocronista, un maestro della cronaca, alzò il pesante telefono di bachelite nera. Il suo viso si fece all’improvviso scuro e una smorfia gli disegnò il volto già scavato dagli anni. Era un uomo di poche parole, Mantica, ma di rara umanità. Scattò verso l’uscio e salì di corsa in direzione al primo piano. Walter Tobagi era già stato ucciso, ma noi non lo sapevamo ancora. Non c’erano telefonini, siti online, non c’era twitter, solo quei pesanti telefoni fissi, insopportabili in duplex, che restarono ammutoliti per interminabili secondi, durante i quali i nostri sguardi di cronisti si incrociarono nel tentare di capire che cosa fosse accaduto. Poi cominciarono a squillare tutti insieme. Un inferno. Mantica scese in lacrime quando noi avevamo già capito e ci sentivamo sperduti e paralizzati dal dolore. Si appoggiò allo stipite della porta principale dello stanzone, quasi lasciandosi andare. «Ma forse non è morto », disse un collega. «No, nulla da fare, Walter è morto».

Uscimmo tutti di corsa, saltammo in fretta sulle macchine posteggiate più vicino e ci precipitammo sul luogo dell’agguato. Lungo il tragitto, lo ricordo perfettamente, eravamo in tre, nessuno di noi parlò. Appena arrivati, vedemmo una scena alla quale eravamo largamente abituati e che ormai non ci faceva più il minimo effetto: le pantere della polizia e le gazzelle dei carabinieri, come si diceva allora, le ambulanze, la concitazione, le urla, il disordine assoluto. La gente era assiepata, tenuta a bada con fatica e come prigioniera di un senso generale d’impotenza e di sconforto. Le parole spezzate, gli sguardi fissi. Ma c’era chi girava il capo e proseguiva allungando il passo, cercando di dimenticare tutto in fretta. Come se la battaglia contro il terrorismo fosse stata ormai persa, definitivamente, e si dovesse per forza convivere con il terrorismo omicida. Levando lo sguardo: una sorta di omertà. In altre occasioni un pensiero del genere non mi era venuto in mente, non ci avevo fatto caso. Quella volta sì perché sotto il lenzuolo sporco di sangue e intriso di pioggia c’era uno di noi, un collega, un amico. Il velo di cinismo che accompagna il lavoro del cronista, e ne fa un testimone utile proprio perché non sopraffatto dall’emotività, aveva lasciato il posto al dolore e alla rabbia, a un senso opprimente di ingiustizia.

Mi vergognavo di non averlo provato altre volte, quel sentimento. Ho riletto l’articolo di Fabio Felicetti, pubblicato il giorno dopo l’agguato in prima pagina sul Corriere. Un pezzo di rara tenerezza espressiva e nello stesso tempo asciutto e privo di retorica, quasi distaccato: descriveva quel corpo sbattuto sull’asfalto davanti al ristorante «Dai gemelli», come se lo dovesse toccare, sorreggere, quasi rianimare: la penna schizzata via dal taschino, l’ombrello caduto, la mano che sembrava ancora muoversi. Non dimenticherò di quelle ore convulse il pianto del direttore, Franco Di Bella, il dolore composto del suo vice Gaspare Barbiellini Amidei, il questore Sciaraffia che tentava di consolarli entrambi, la faccia impietrita di Angelo Rizzoli. Ma soprattutto gli sguardi smarriti dei tanti colleghi che erano accorsi lì, in via Salaino, una via sconosciuta, laterale, che poi per molti anni nessuno di noi avrebbe avuto più il coraggio di percorrere. Il direttore Di Bella era uomo duro, schietto, ma di straordinaria carica umana: sembrava aver perduto ogni forza. E ogni speranza. Come noi. Al funerale di Walter gridò la sua rabbia contro uno Stato che non sapeva difendere un suo cittadino. Ancora una volta, come tante volte. Eppure, non lo sapevamo e nessuno di noi lo immaginava, la lotta contro il terrorismo stava per essere vinta grazie ai tanti semi gettati con coraggio in una società provata e disillusa. Molti di quei semi erano nelle parole e negli articoli di Walter, come nei gesti e nell’opera silenziosa di tanti servitori dello Stato.

Il tempo, quel mercoledì, si era fermato all’improvviso. L’arrivo del padre di Walter, il suo urlo («Figlio mio») e il suo amorevole tentativo di nascondere alla nuora Stella la vista del corpo di Walter, ancora schiacciato contro il marciapiede: scene rimaste scolpite per sempre nella mia mente. La rappresentazione del dolore più profondo. Il calvario senza resurrezione. Ma l’immagine che mi è sembrata rappresentare di più la tragedia è quella di Walter ancora vivo, un po’ stanco, ma come sempre arguto e intelligente, la sera prima, al Circolo della Stampa di Milano a un dibattito sull’informazione e sul terrorismo. «È vero, c’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti, ma sappiamo come nasce, e non possiamo meravigliarci ogni volta che ne scopriamo gli effetti... dobbiamo impedire che si propaghi». Walter parlava, citando Mario Borsa, direttore del «Corriere» nell’immediato dopoguerra, della libertà di stampa e della necessità che il pluralismo fosse garantito dalla corretta e aperta concorrenza fra gruppi editoriali. E aggiungeva: «Non è assolutamente sano in un Paese democratico che la politica si faccia nei palazzi di giustizia». Sono passati trent’anni, tutto è cambiato, ma le parole di Walter conservano una straordinaria attualità. La sua eredità morale e culturale rimane integra e viva. Intatta la testimonianza professionale di un cronista libero; fecondo il lascito di un pensatore riformista; profonda la scia di un cattolico impegnato nella società, desideroso di comprenderne le trasformazioni e di segnalarne con onestà e precisione le anomalie, i germi della violenza e del terrorismo.

Quella mattina, prima di sapere che era stato ucciso, una voce parlava di un portavalori ammazzato. Dopotutto, l’informazione non era errata, Walter è stato ed è il nostro portavalori. E che valori! A noi il compito arduo di custodirli senza retorica e amnesie.

giovedì 27 maggio 2010

(IM)PRESSIONI DI CRISI

Ascoltando Berlusconi ieri dissertare sull'arrivo (!?!) della crisi anche nella nostra cara Italia, ho pensato al valore delle parole. E soprattutto alla temporalità di quest'ultime.
Infatti, un anno fa il premier si bullava del fatto che la crisi in Italia non era e non sarebbe mai arrivata (senza però chiederlo alle migliaia di famiglie che proprio da un anno stringono la cinghia!).
Ora però sembra essersene accorto perfino lui, il buon vecchio ottimista brianzolo.
Ergo, la crisi è arrivata (d'altronde il nostro è il Paese dei ritardi)! Purtroppo però le stime internazionali la annunciavano da tempo.
Eppure nessuno che si sia degnato di chiedere al Presidente del Consiglio cosa sia successo di tanto grave (tanto da fargli perdere il suo caratteristico ottimismo!) da un anno a questa parte!!!
Io non ho potuto chiederglielo. Intanto, però, gustiamoci le sue opinioni...


PRIMA (26 GIUGNO 2009)




DOPO (26 MAGGIO 2010)



P.S. Forse questa è la prima smentita berlusconiana che porti ad affermare la verità! Curioso, no?!

STUDEO, ERGO SUM PROBATUM (ovvero la "strage" quasi annunciata della maturità)

Poco più di un mese alla maturità. Ma per l’ammissione all’esame, ci siamo quasi. E quest’anno ci potrebbe essere una vera e propria «strage»: 137mila studenti non ammessi, cioè quasi il 35% del totale dei candidati interni. Questo tenendo conto del nuovo Regolamento per la valutazione varato lo scorso anno, il quale prevede che «saranno ammessi agli esami di Stato soltanto gli studenti che, nello scrutinio finale, abbiano conseguito una votazione non inferiore a 6 in tutte le materie e in condotta». Fino allo scorso anno,invece, lo studente per essere ammesso doveva avere la «media» del 6.
Quindi se fino al 2009 bastava aver saldato tutti i"debiti formativi" e avere una media appena sufficiente, da quest'anno il gioco cambia. E le regole sono più dure!
E a rischiare sono in circa 130mila studenti. Ad affermarlo è il "Corriere della Sera" che, diligentemente ha incrociato i dati ministeriali sui risultati del primo quadrimestre e i voti registrati sul «pagellino» di metà secondo quadrimestre (prendendo come campione 10 scuole di Milano, lavorando perciò sui dati di 700 studenti). Ne risulta che nel primo quadrimestre circa il 64% dei ragazzi dell’ultimo anno ha avuto più di due insufficienze. A metà del secondo quadrimestre, il 38% degli studenti ha ancora una o due insufficienze, il 15% tre materie insufficienti, il 9% più di tre; solo il 38% è tranquillo.
Certo non è una statistica, ma son pur sempre numeri buoni al livello tendenziale.
E "tendenzialmente" starebbero rischiano sul serio circa il 63% dei "maturandi" italiani.
E' chiaro, molti si salveranno (come al solito per il rotto della cuffia!). Ma resta il dato cruciale che, comunque vada, avranno rischiato in molti (e in questo il Governo avrebbe raggiunto il suo scopo). Ed uso il condizionale perché, se ben si vede negli articoli dell'ordinanza sugli esami, è previsto ancora il vecchio "voto di consiglio" (che in pratica salverebbe a maggioranze molti studenti che gravitano nel "purgatorio dell'ammissione"). In pratica, con estrema gioia di alcuni ragazzi, torna in auge il vecchio "sei politico".
Si resta, a mio avviso, ancora tra la severità (auspicata dal Governo) e la magnanimità (tanto desiderata dai ragazzi).
E voi cosa ne pensate?

mercoledì 26 maggio 2010

NON-SENSO DEL DIBATTITO ARISTOTELICO

Può un vecchio (e saggio) filosofo greco essere usato per giustificare affermazioni in difesa di un'organizzazione che (comunque la si pensi) promuove e incentiva la distruzione di popolo (quello ebraico nella fattispecie)? Nient'affatto, si dirà. Eppure guardate qui sotto!



In questo video una studentessa musulmana dell’Università di San Diego (USCD) rivela di essere a favore di Hamas e alla domanda se Hezbollah abbia ragione o torto ad augurarsi che tutti gli ebrei facciano ritorno in Israele così da poterli fare fuori più comodamente, senza dover dare loro la caccia in giro per il mondo, risponde con un serio e duro "sì".
La notizia è stata pubblicata il 18 maggio scorso dal Los Angeles Times a firma di Jonah Goldberg che ha poi inviato una mail all'USCD per ricevere chiarimenti in merito all'accaduto e sulle possiblità di conseguenze negative per la ragazza. Nessuna conseguenza, risponde l’Università: il nostro fondamento, come tracciato da Aristotele, sono “il dialogo e il dibattito“, oltre alla “libertà d’espressione”, naturalmente.
Di fronte a tali risposte, al buon Goldberg non è restato altro che scrivere che: this endorsement of genocide is brought to you by Aristotle (ovvero che "tale linea culturale è stata mutuata da Aristotele").
Goldberg aggiunge poi che certe forme di razzismo sono più tollerate di altre. Secondo Goldberg, ciò dipende dal fatto che una parte della nostra società non riesca ad agire che seguendo un "copione" che venga ritenuto adeguato. E un copione per affrontare affermazioni come quella della studentessa musulmana non sarebbe stato ancora elaborato. Bisognerebbe ritornare a riflettere, conclude Goldberg: senza dare retta né alla "sceneggiatura" che dipinge tutti i musulmani come attentatori né a quella che, all’opposto, predica un relativismo tale per cui propagandare lo sterminio e difendere la vita valgano lo stesso.

Mi permetto, allora, di fare una quadra generale partendo dalle conclusioni di Goldberg. E' vero. Siamo oramai immersi in un mondo dove la "via mediana" tra due visioni è praticamente impossibile da percorrere. E questo avviene anche (e soprattutto) per argomenti dove il mondo sembra essere molto più avanti di noi. Come il multiculturalismo. Un multiculturalismo che si fondi, appunto, sulla ricchezza delle differenze. Un pò come il vero dialogo aristotelico (o meglio della filosofia greca e di quella medievale). Dove, in definitiva, la differenza era un arricchimento, non un ostacolo.

lunedì 24 maggio 2010

IL CINEMA MUTO (regia di Augusto Minzolini)



Ieri l'attore Elio Germano ha ricevuto la Palma d'Oro come Migliore Attore (ad ex aequo con Javier Bardem) al Festival del Cinema di Cannes.
Sul palco ha però detto qualcosa di forte che qui riporto: "Ringrazio di cuore Daniele Luchetti, Rai Cinema e Cattleya che hanno creduto in questo film. E siccome i nostri governanti in Italia rimproverano al cinema di parlare male del nostro Paese, dedico questo premio all'Italia e agli italiani che fanno di tutto per rendere l'Italia un Paese migliore, nonostante la loro classe dirigente".
Dedica tosta. Dedica azzeccata. Ma non per Minzolini che, causa un sedicente "errore tecnico", ha "ammutolito" il bravo attore per poi riportare in fretta e furia la frase su riportata.
Un'immagine orrida: Germano che parla in video e sembra un "pesce" che boccheggia sott'acqua. Ed è forse questo ciò che vogliono questa classe dirigente ed il giornalismo servile (al quale s'è ribbellato Maria Luisa Busi): annegarci in quest'acqua putrida che sta, con inesorabile lentezza, "inondando" tutta l'Italia.

RIFLESSIONI DEL CUORE


Il 20 Maggio per Laterza non è mai un giorno qualunque. E non solo perché è festa patronale.

Anche se quest'anno si è dovuto rinviare al 23 Maggio (quasi che anche la Madonna fosse in collera con il Sindaco per aver "abbandonato" il suo paese!) la processione in onore della nostra protettrice, l'affetto dei laertini è rimasto immutato ed ugualmente forte ed intenso.

Lo dico con franchezza, amici miei, non sono un credente che crede ma sono un credente che spera.

Senza, però, soffermarmi oltremodo su questioni di carattere teologico, vorrei qui sottolineare un certo moto d'animo che m'ha preso quando, accompagnato da quella "santa donna" della mia ragazza, ho visto la Madonna uscire dalla Chiesa Madre per compiere la sua classica "passeggiata" per le vie del paese. Come definire quella sensazione? Incommensurabile, direi.

Ed era incomprensibile per me provare tale sentimento mai provato prima. Circondato da gente commossa e quasi in "estasi". E poi tutti quei gesti: la chiave del paese donata alla sacra effige, i devoti che portano in spalla la patrona e la gente che la accompagna per le vie della cittadina.

Ora, a mente fredda, non comprendo queste sensazioni. Ma ne sono orgoglioso. Perché, senza chiamare in ballo la religione, ho visto un paese finalmente unito. Un'immagine forte e delicata al tempo stesso. Da incorniciare.

domenica 23 maggio 2010

PER UN PARTITO CHE TROVI LE RISPOSTE (E CHE SI FACCIA DELLE DOMANDE)

Chi vi scrive, v'informo sin d'ora, è iscritto "di fresco" al Partito Democratico nel circolo del suo ridente paese, Laterza.
Ebbene si, perché c'è ancora qualcuno che s'iscrive al Partito Democratico...anche in tempi così difficili per la politica e, ancor di più, per la sinistra. E lo fa convintamente...
E la cosa strana è che ce ne sarebbero molti altri di potenziali membri. Certo, direbbe Aristotele, per passare dalla "potenza" all' "atto"...ce ne vuole! Ma, poi, che ci vuole?
Incontro molta gente (d'ogni età, è chiaro) che, essenzialmente, chiede tre cose: una politica più propositiva, un partito che sia vicino alle istanze degli ultimi e dei dimenticati (delle classi medio-basse..per dirla col paradigma economico) e un ricambio generazionale della dirigenza.
Insomma una politica al passo con i tempi. Ma, logicamente, chi è al passo con i tempi? Le nuove generazioni.
Si capisce, allora, che, nonostante la "brutalità" del sillogismo, le tre cose sono talmente concatenate da essere (quasi) indistinte. Eppure quel sillogismo non deve ingannare: i "grandi vecchi" servono. Ah se servono! Servono perché solo loro possono guidarci nella comprensione di una macchina amministrativa che, per dei giovani, presenta a volte difficoltà tutte da risolvere.
Guai, allora, se si dovesse riprendere il modello della lotta tra bande, giovani vs. "vecchi" (spiacevole aggettivo, meglio "esperti").
Non vi devono essere strappi (anche soprattutto umani), ma segni di discontinuità. E Laterza ne ha bisogno. Urgentemente.

P.S. Altre domande ce le faremo per la via. Peripateticamente.

PERCHE' UN BLOG?


Occorre comunicare, in questi nostri tempi grigi. Perché comunicare è luce, perché comunicare è vita.
Questo blog vuole riempire quello spazio vuoto tra politica e cultura. E vuole riportare la filosofia nei nostri giorni (per riconsegnare speranze a tutti). Perché se c'è qualcosa che la filosofia può fare è risvegliare le menti delle masse (quasi tutte addormentate).
Vi condurrò pertanto alla scoperta della politica di Laterza, una piccola cittadina del tarantino, e in questo duro compito mi servirò della buona vecchia (e nuova) filosofia.
Spero pertanto che la lettura dei miei brevi post vi possa piacere e, se possibile, stimolare ad una profonda analisi dell'esistente.

A presto,

ELLEMME